Pasquale Stanislao Mancini

Pasquale Stanislao Mancini

(1817-1888)

Professore ordinario di diritto internazionale nella Regia Università di Torino - Deputato e Ministro del Regno d’Italia

Dal regno delle Due Sicilie al regno di Sardegna: professore e uomo politico a Torino, capitale del Risorgimento italiano

Pasquale Stanislao Mancini nasce a Castel Baronia, Avellino, il 17 marzo 1817, figlio dell’avvocato Francesco Saverio. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università di Napoli nel 1835, inizia la carriera forense e fonda una scuola privata di diritto pubblico e penale. Nel contempo, svolge attività giornalistica e diventa un protagonista della vita culturale.

Nel 1848 si mette in luce con la petizione al re Ferdinando II per l’intervento nella prima guerra di indipendenza e con la difesa dello statuto del 12 gennaio 1848. Membro della commissione per la riforma dei codici ed eletto deputato, scrive il testo della protesta contro “la violenza delle armi regie” e difende alcuni giornalisti e deputati (dopo l’abrogazione della costituzione).

Accusato di ribellione (e successivamente condannato a 25 anni di reclusione), il 27 settembre 1949 fugge a Torino, in esilio, e guadagna la stima di Carlo Ilarione Petitti, di Federico Sclopis, di Cesare Balbo e di Massimo d’Azeglio, nonché di Lorenzo Valerio, con i quali coltiva rapporti di amicizia. A Torino esercita la professione di avvocato, scrive e pubblica.

Grazie ai buoni uffici di Cesare Balbo, Mancini è oggetto di interesse da parte del presidente del consiglio Massimo d’Azeglio. In prima battuta, si prospetta l’ipotesi di creare una scuola per formare i diplomatici sardi, che si propone di portare al ministero degli affari esteri giovani che non siano soltanto di estrazione aristocratica, ma il progetto tramonta. Successivamente, il ministro della giustizia Giuseppe Siccardi lo chiama a far parte della commissione “per rivedere le leggi civili e criminali” (1850), e di lì a poco d’Azeglio demanda al ministro dell’istruzione pubblica Cristoforo Mameli la presentazione di un progetto di legge per l’istituzione di una cattedra di Scienza consolare e diplomatica presso l’Università di Torino. Per parte sua, in questo periodo Mancini intuisce che il regno di Sardegna ha intrapreso un percorso di riforme che il vigente statuto albertino permetterebbe di realizzare se si riuscisse a conferire un solido fondamento giuridico alle aspirazioni nazionali e non solo municipali dello Stato, che ha subìto la sconfitta nella prima guerra d’indipendenza, nel 1848-49.

L’idea della cattedra di Scienza consolare e diplomatica si sviluppa in maniera differente, e l’iter parlamentare della legge è relativamente breve. Essa viene promulgata il 14 novembre 1850 e con decreto del 17 dicembre 1850 l’insegnamento è assegnato a Pasquale Stanislao Mancini. Viene così costituita – nella Facoltà di Giurisprudenza della Regia Università di Torino - la cattedra di "Diritto pubblico esterno ed internazionale privato" e l’inizio del corso viene stabilito per il gennaio 1851. La legge è costituita da cinque soli articoli, al secondo dei quali si precisa che il corso dovrà comprendere il diritto marittimo e “coordinarsi con la storia dei trattati, soprattutto di quelli riguardanti l’Italia, e la Monarchia di Savoia in particolare”. Si noti che si menziona l’Italia, come se si trattasse già di un soggetto politico e giuridico. Il corso (art. 3) è concepito come biennale, e “farà parte del corso completivo”, cioè di formazione avanzata.

Mancini comincia il corso il 22 gennaio 1851 con la famosa prelezione “Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti”, un discorso lungo, enfatico e venato di passaggi retorici. Non bisogna dimenticare che la “prelezione” era pronunciata nel corso di una cerimonia ufficiale, alla quale assistevano le autorità e l’intero corpo accademico, che così potevano farsi un’opinione diretta della qualità del professore. Si può dire che parlasse a Torino e per i torinesi, ma con l’attenzione a un pubblico ben più ampio.

Nel suo discorso, Mancini esprime con vigore (è un oratore eccellente) una tesi chiaramente invisa alle potenze che raccolgono sotto il loro dominio nazionalità diverse. Infatti l’Austria, tramite il conte Rudolf Appony, ministro plenipotenziario a Torino, esercita forti pressioni sul presidente del consiglio d’Azeglio affinché questo riconduca a idee meno radicali il Mancini o, meglio, lo sostituisca con qualcuno meno liberale. Anche l’incaricato d’affari del regno delle Due Sicilie, il barone Giuseppe Canofari, fa successivamente pervenire forti rimostranze al governo piemontese. Tuttavia, nonostante le pressioni, Mancini viene protetto e sostenuto, anche perché le idee da lui espresse sono in linea con la politica della monarchia sabauda.

La risposta borbonica non si fa comunque attendere, anche per le continue denunce di Mancini della repressione politica, di cui egli stesso era caduto vittima; questa reazione si esplica nella confisca delle proprietà del giurista napoletano in Meridione, delle quali rientrerà in possesso solo dopo la spedizione di Garibaldi.

Nel contempo Mancini si adopera anche per poter tornare ad esercitare l’avvocatura, a Torino. Nei primi mesi del 1851 chiede la cittadinanza sarda, che gli viene concessa con decreto il 2 giugno. Il 5 ottobre egli giura fedeltà al re ed allo statuto. Tuttavia la sua domanda di iscrizione all’albo inizialmente viene respinta dal foro torinese, nonostante che Mancini sia già diventato professore. Solo dopo forti pressioni viene ammesso a difendere in Tribunale il 25 luglio, e il 25 novembre presso la Cassazione. Una volta superate le iniziali difficoltà nell’accesso alla professione, il Mancini colpisce subito tutti con le sue doti e la sua sorprendente eloquenza, dando così seguito anche a Torino alla brillante carriera forense iniziata a Napoli.

Dedica le lezioni dal 1852 al 1854-55 agli studi che conduce per elaborare i criteri per la soluzione dei conflitti di legge nello spazio. I criteri saranno poi adottati nel titolo preliminare del codice civile del 1865, e diventeranno anche oggetto del tentativo di portare alla redazione di un codice internazionale di diritto internazionale privato. Questo progetto viene perseguito con tenacia dal Mancini per un decennio, fino al 1873 e alla fondazione dell’Institut de droit international, e finisce con l’incontrare l’insormontabile opposizione del cancelliere Bismarck. Mancini, ormai diventato un giurista di fama internazionale, viene eletto primo presidente dell’Institut.

Nella successiva sessione del 1874 a Ginevra, egli è nuovamente presidente e pone in evidenza, nella sua relazione, la necessità di addivenire alla adozione di convenzioni internazionali volte a rendere obbligatorie ed uniformi alcune regole del diritto internazionale privato, al fine di sottrarre la disciplina dei rapporti internazionali privati ai mutevoli rapporti di forza tra gli Stati.

Nel 1856-1857 il regolamento degli studi legali della Regia Università di Torino del 9 ottobre 1856 ha disposto che l’insegnamento di Mancini cambi la propria denominazione in “Diritto internazionale” e venga inserito al quinto anno del corso ordinario della Facoltà di Leggi. È chiaramente un riconoscimento del valore e dell’importanza della materia, nonché delle capacità del suo docente; tuttavia questa promozione comporta la necessità di abbreviare la durata del corso, che da biennale diviene annuale. La riduzione del tempo a sua disposizione indurrà il Mancini a segnalare l’assoluta insufficienza delle lezioni a fronte dell’ampiezza e dell’importanza degli argomenti da trattare. La notevole fama ormai raggiunta dal giurista viene suggellata anche dall’onore conferitogli di tenere il discorso inaugurale per l’anno accademico 1858-1859.

Sempre attivo nella vita politica, è al fianco del conte Camillo Cavour come segretario in occasione del negoziato e della firma del trattato di Zurigo (1859). Eletto deputato nel parlamento subalpino, sostiene poi la conquista e la dittatura di Giuseppe Garibaldi, e dà il suo autorevole sostegno alle scelte di Cavour, il 29 giugno 1860. Partecipa alla redazione della relazione, presentata alla Camera il 6 ottobre 1860, che autorizza il governo “ad accettare e stabilire con decreto l’annessione delle province dell’Italia centrale e meridionale” dopo la celebrazione dei plebisciti, adottando un’interpretazione estensiva dell’art. 5 dello statuto del regno (pur manifestando perplessità per la scelta di rinunciare all’annessione delle Venezie e alla soluzione della questione romana). Inoltre, nel periodo delle annessioni, il Mancini è inviato dal Cavour a Bologna e a Firenze, per preparare l’estensione della legislazione sarda ai ducati dell’Italia centrale, alle legazioni e alla Toscana. Uno dei problemi di maggior rilievo era, infatti, l’unificazione legislativa, che doveva seguire quella politica, in corso di realizzazione.

Dai banchi dell’assemblea subalpina si prodiga con passione; in particolare va ricordato il discorso con cui si oppone alla cessione di Nizza alla Francia, che gli vale la stima e l’amicizia di Garibaldi. Questa viene poi consolidata quando Mancini assiste Garibaldi nella causa per l’annullamento del matrimonio con Giuseppina dei conti Raimondi.

Convinto della natura “cosmopolita” del commercio e della necessità di una coerente disciplina normativa, nel 1862 è sostenitore della necessità di estendere il codice di commercio albertino, nel nome dell’unità economica e finanziaria italiana.

Il 13 marzo 1862 Mancini è per la prima volta ministro, nel governo di Urbano Rattazzi, con il portafoglio dell’istruzione pubblica; con l’autorevolezza derivante dalla sua posizione decide per l’inserimento della filosofia del diritto tra le materie obbligatorie della Facoltà di Giurisprudenza. Tiene l’incarico ministeriale per circa un mese, rassegnando poi le dimissioni per insanabili contrasti con gli altri esponenti del governo; da quel momento passa nelle file della sinistra parlamentare (venendo riconfermato ad ogni elezione dalla fedele Ariano Irpino, collegio in cui aveva deciso di candidarsi dal 1861 in poi), sinistra a cui apparterrà per tutta la sua vita parlamentare seguente, e di cui diviene col tempo uno degli esponenti più significativi.

Nel codice del 1865 il giurista napoletano riesce a inserire, in materia di trattamento di cittadini e stranieri, il superamento del principio di reciprocità in favore di quello di integrale parità. La disposizione risulta anche particolarmente utile a un paese di emigrazione come l’Italia di allora.

 

La cattedra a Roma e gli incarichi di governo: ministro della giustizia e degli esteri

Nell’anno accademico 1870-71, il professor Mancini è chiamato alla cattedra di Diritto internazionale dell’Università di Roma, lasciando così l’Università di Torino, della quale nell’anno accademico 1875-1876 verrà nominato professore emerito.

Presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma, nel gennaio 1876 Mancini diviene ministro della giustizia nel governo di Agostino Depretis. Si adopera molto nel campo della riforma dei codici, proponendo un progetto di codice penale, che prevede l’abolizione della pena di morte, e uno di codice del commercio, che prevede l’abolizione della carcerazione per debiti; si prodiga anche per l’abbattimento dei numerosi privilegi ecclesiali. Il nuovo codice di commercio (promulgato nel 1882) è stato ricordato come “codice Mancini”, per il ruolo rilevante che il grande giurista ha avuto nella sua elaborazione e adozione. Si preoccupa di assicurare l’indipendenza della magistratura dal potere politico e per la normalizzazione della situazione del Sud. Il Mancini è contrario all’adozione di misure eccezionali che a suo avviso non fanno che ampliare la voragine che si sta aprendo tra le diverse realtà italiane. Caduto il governo nel 1877, egli viene riconfermato nello stesso ruolo e ha una parte fondamentale nell’escludere ogni ingerenza estera nell’elezione del nuovo Papa, dopo la morte di Pio IX.

Intanto nel 1878 cade il governo, e con l’avvento del Cairoli il Mancini torna all’attività forense ed universitaria (tra le cause di rilievo, si può menzionare la difesa dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, processato per le conseguenze della sconfitta di Lipsia); nello stesso anno viene rieletto nel collegio di Ariano, e si trova costretto a lasciare l’insegnamento a causa della legge sulle incompatibilità con l’ufficio di parlamentare.

 Nel 1881 Mancini assume la direzione dell’Enciclopedia giuridica italiana (1884-92).

Un altro grande impegno del Mancini, attuato anche attraverso l’Institut de droit international, ma soprattutto attraverso l’attività parlamentare, è quello per l’introduzione dell’arbitrato come mezzo per scongiurare il flagello della guerra; argomento che il Mancini sostiene con forza e di cui si fa carico anche da ministro degli esteri con molte iniziative e pressioni, che però non ottengono i risultati sperati. Egli vede nell’arbitrato obbligatorio la forma migliore per contenere nel diritto i rapporti di forza tra gli Stati, obiettivo che il sistema del “concerto europeo” non è in grado di garantire.

Dal maggio 1881 al luglio 1885, Mancini è ministro degli affari esteri. È uno degli artefici della Triplice Alleanza, trattato firmato il 20 maggio 1882, in cui a lungo spera di coinvolgere anche l’Inghilterra, senza risultato però, a causa della contrarietà tedesca; opta così per l’allegazione al trattato di una dichiarazione unilaterale del governo italiano volta a fugare ogni dubbio sulla presenza di uno spirito antibritannico nel patto e a sottolineare come l’accordo con Germania e Austria sia, per l’Italia, subordinato al mantenimento dei buoni rapporti con l’Inghilterra.

Nel 1882 intanto si tiene a Torino l’annuale sessione dell’Institut de droit international sotto la presidenza del genero di Mancini, Augusto Pierantoni. L’Institut ha fin dai primi passi una forte impronta manciniana.

Mancini è fortemente criticato in Parlamento per la sua politica coloniale, tanto che, dopo il balzo in Sudan respinto dall’Inghilterra e il no all’occupazione abbinata italo-inglese dell’Egitto, sarà costretto alle dimissioni, che causano in sostanza la fine della sua attività politica. Riguardo all’offerta inglese di intervento in Egitto, il Mancini non sa sfruttare la situazione, non accorgendosi della crisi nella collaborazione franco-inglese e della ritrosia francese ad agire apertamente con le armi; egli d’altra parte vagheggia, sull’onda del principio di nazionalità, un intervento congiunto delle grandi potenze, le quali però non danno nessun riscontro a questa idea.

Alle aspre critiche causate dall’inattività manciniana si assomma la perdita di Tunisi e la magra consolazione di un’espansione nel Mar Rosso, invece che verso l’Africa, e di Massaua, la quale si sperava fosse il preludio a Tripoli; ma la Libia viene raggiunta solo alcuni anni dopo. Il Mancini sostiene strenuamente la bontà della sua politica, che però è stata sicuramente viziata da alcuni errori di valutazione, causati forse soprattutto dall’imbarazzo in cui il giurista si è trovato nel conciliare una linea più aggressiva con le sue idee sulla nazionalità. Proprio a seguito di un dibattito sulla politica coloniale in cui la linea da lui sostenuta viene sconfitta dal voto parlamentare, egli si dimette segnando la fine della sua vita di uomo politico di primo piano.

In definitiva, la sua attività agli esteri è percorsa dalle feroci critiche che i detrattori gli muovono ravvisando sia nella stipulazione di accordi con uno stato composito come l’Austria, sia nel perseguire una, benché timida, politica coloniale un travisamento del principio di nazionalità, che con tanta passione aveva teorizzato dalla cattedra torinese nel 1851.

Mancini muore a Napoli il 26 dicembre 1888, a 71 anni, nella villa reale di Capodimonte che il re Umberto gli aveva messo a disposizione.

Per quanto riguarda opere scientifiche di diritto internazionale, grandissimo oratore, Mancini non ha pubblicato molto. La sua opera si ritrova essenzialmente nelle trascrizioni di lezioni, e nell’attività forense. Inoltre, l’intensa attività politica è ricostruibile attraverso le raccolte dei suoi discorsi parlamentari.

 

La teoria della nazionalità: il lascito del grande giurista

 Il segno più profondo che Mancini ha lasciato nella storia del diritto è indubbiamente legato alla teoria della nazionalità, esposta nella celebre e celebrata “prelezione” torinese del 22 gennaio 1851. Essa gli garantisce fama e riconoscimenti a livello internazionale. Gioele Solari, maestro della filosofia del diritto nell’ateneo torinese dal 1917 al 1948 (quando fu sostituito dall’allievo Norberto Bobbio) osserva: “La prolusione del Mancini si poneva non solo come un nuovo metodo, ma come un nuovo programma di studi, e fu per l’influenza esercitata in Italia e per i risultati raggiunti quello che fu in Germania la Vocazione del Savigny, con questo in più e in meglio che al concetto vago e indeterminato dell’anima popolare si sostituiva nella prolusione del Mancini la realtà concreta della nazione in via di costituirsi una realtà politica e giuridica” (G. SOLARI, La vita e il pensiero civile di Giuseppe Carle, Torino,  Bocca, 1928, p. 12).

La costruzione del giurista napoletano si compone di una serie di elementi, che potremmo definire materiali, che egli ci dice essere: “alcune proprietà e fatti costanti, che superando i limiti delle zone e de’ secoli, ebbero a riscontrarsi ognora presso ciascuna delle tante Nazioni che fin qui vissero”. Essi sono: il territorio, la razza, il linguaggio, la storia, i costumi, le leggi, la religione.

Tuttavia la presenza di questi caratteri non è affatto sufficiente a dar vita alla nazione. Essi sono come “inerte materia capace di vivere, ma in cui non fu spirato ancora il soffio della vita”. Sono, quindi, la base su cui la nazionalità affonda le proprie radici, ma non valgono da soli a sancirne l’esistenza. Serve un ulteriore e più importante elemento, che potremmo dire spirituale, la coscienza della nazionalità: “Moltiplicate quanto volete i punti di contatto materiale ed esteriore in mezzo ad un’aggregazione di uomini; questi non formeranno mai una Nazione senza la unità morale di un pensiero comune, di una idea predominante che fa una società quel ch’essa è, perché in essa vien realizzata. L’invisibile possanza di siffatto principio di azione è come la face di Prometeo che sveglia a vita propria ed indipendente l’argilla, onde crearsi un popolo: essa è il Penso, dunque esisto de’ filosofi, applicato alle Nazionalità. Finché questa sorgente di vita e di forze non inonda e compenetra della sua prodigiosa virtù tutta la massa informe degli altri elementi, la loro multipla varietà manca di unità, le attive potenze non hanno un centro di moto e si consumano in disordinati e sterili sforzi; esiste bensì un corpo inanimato, ma incapace di funzionare ancora come una Personalità Nazionale, e di sottostare a’ rapporti morali e psicologici di ogni distinta organizzazione sociale”.

La coscienza della nazionalità è, quindi, il nucleo fondamentale della teoria, il “principio organizzatore dello stato moderno”. Senza questo elemento soggettivo della “coscienza” non si ha una nazione. Razza, territorio, lingua promuovono, facilitano l’affermazione di un sentimento nazionale, il quale però non è un prodotto necessario di questi elementi, che ne sono solo validi sostegni, nonché evidenti indizi.

L’idea di nazione, dunque, poggia su basi decisamente volontaristiche. L’efficace formula di Ernest Renan – la nazione come “plebiscito di tutti i giorni” – nella sostanza è già in Giuseppe Mazzini e – in una costruzione giuridica – in Pasquale Stanislao Mancini.

Mancini identifica la nazione in “una società naturale di uomini da unità di territorio, di origine, di costumi e di lingua conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale”. Essa si forma al termine di un processo storico, diverso di caso in caso e sicuramente di non facile lettura: “Essa è un fatto sociale, non individuale; essa non vive in tutti gli individui di uno stesso aggregato umano, né con la stessa intensità ed energia, né con lo stesso contenuto ideologico e sentimentale”.

Questo sentimento non è però un fattore privo di veste giuridica. Il Mancini si preoccupa di affrontare la questione, ed è proprio ciò che più vale a differenziare e a rendere innovativo il suo approccio rispetto ai precedenti. Egli ci dice come la sola esistenza di una nazionalità generi, senza la necessità di pattuizioni di alcun tipo, rapporti giuridici che si manifestano nella libera costituzione interna della nazione e nella sua indipendenza e autonomia nei confronti delle altre. Quando un insieme di uomini, conformati da unità di territorio, lingua, costumi e quant’altro, acquisisce la coscienza di formare nella propria totalità una nazione, allora ha il diritto di elevarsi a Stato indipendente. Il Mancini ritiene che si tratti di una generazione spontanea e necessaria, non legata a un patto o trattato, ma dipendente solo dal sorgere di tale coscienza: si afferma così la libera costituzione interna e la autonomia dalle altre nazioni.

La costituzione interna è poi duplice: da una parte vi è quella fisica, che concerne il possesso di tutto il territorio nazionale, dall’altra quella morale, che si risolve nell’esistenza di un governo che regga la nazione. In definitiva, l’approdo del ragionamento manciniano si condensa in una frase: “coesistenza ed accordo delle Nazionalità libere di tutt’i popoli”, è la sintesi del fondamento del diritto.

Il giurista di Castel Baronia non si ferma però alla sola fase descrittiva. Egli ritiene che debba essere la nazione e non lo Stato il soggetto proprio del diritto delle genti; in questa prima prelezione egli porta già alle conseguenze ultime la sua teoria: lo Stato è un soggetto artificiale e arbitrario, mentre la nazione è naturale e necessaria; quindi è questa a dover avere soggettività internazionale e non lo Stato, che tale ruolo non può rivestire, essendo manchevole di ogni legittimazione a ricoprirlo.

Questo rapporto tra nazione e Stato è il punto più controvertibile della dottrina. Non si può negare, comunque, il valore storico e ideale della costruzione manciniana, la quale riveste un ruolo importante di stimolo sul piano etico, nel processo di formazione dell’unità d’Italia; né si può disconoscere la paternità della teoria al giurista partenopeo, cui spetta con certezza il merito di averla sistematizzata e trattata compiutamente, indipendentemente dalle precedenti esposizioni. Questo principio ha poi il non secondario merito di aver dato un forte impulso allo sviluppo del diritto internazionale, sia pubblico sia privato, dando origine a una vera e propria ‘Scuola italiana’, della quale egli è stato innegabilmente il padre e il maestro.

Nel diritto internazionale, non è solo il pubblico ad essere interessato dal principio di nazionalità, ma ne è pienamente coinvolto anche il privato. Mancini ritiene, infatti, che la nazionalità comporti anche la necessità di applicare ad ogni persona il diritto proprio della nazione a cui questa appartiene: “poiché il diritto di nazionalità che appartiene ad un intero popolo, sostanzialmente non è diverso dal diritto di libertà, che appartiene agl’individui, ne segue che di quel patrimonio stesso di privati diritti e facoltà, di cui l’uomo reclama la garentia ed il rispetto da parte del proprio Stato e de’ suoi concittadini in nome del principio di libertà, egli può medesimamente reclamare la garentia ed il rispetto da parte di Stati e genti stranieri in nome del principio di nazionalità”.

La regolazione dei rapporti giuridici dello straniero in base alla normativa del Paese di provenienza non si fonda più sulla comitas, ma su un preciso dovere giuridico discendente dal principio di nazionalità e necessario al suo rispetto.

Il pensiero del giurista napoletano va oltre: egli propone un sistema basato sulla sola nazionalità, in cui i rapporti risultino regolati in base alla legge del paese di origine di ogni persona. In verità il sistema elaborato da Mancini prevede dei temperamenti: ove l’applicazione di questo principio vada a ledere la sfera dei poteri dello Stato ospitante, allora si giustificano deroghe basate sulla necessità del mantenimento dell’ordine pubblico; il sistema può essere derogato dall’autonomia delle parti; i beni immobili sono sottoposti alla legge del luogo in cui si trovano.

Il forte impegno profuso e la tenacia del Mancini fanno sì che nelle preleggi al codice civile italiano del 1865 venga inserito il principio di nazionalità quale criterio per definire le legge applicabile allo straniero. L’articolo 3 delle disposizioni preliminari ai codici del Regno d’Italia recita: “Lo stato e la capacità delle persone sono regolati dalla legge della nazione a cui esse appartengono”. È un’integrale applicazione della teoria manciniana al diritto internazionale privato, senza alcuna subordinazione alla reciprocità di trattamento. Sarà il legislatore italiano del 1942, in un clima politico profondamente mutato, a fare un passo indietro e a porre la reciprocità come condizione per l’applicazione della legge straniera.

L’opera del giurista napoletano non si limita però solo al diritto italiano. Fin dal 1861 gli viene conferito l’incarico di formulare un progetto di trattato, e nel 1867 il governo gli affida un sondaggio ufficioso in diversi Stati europei. Insomma, il Mancini si prodiga attivamente in veste di politico e di intellettuale affinché il governo italiano si faccia promotore di una codificazione del diritto internazionale privato: “mediante la negoziazione e stipulazione tra i vari Stati di una o più convenzioni o trattati internazionali, intesi propriamente a regolare questa speciale materia ed a determinare con uniformi accordi poche ma precise norme convenzionali per rendere obbligatoria l’applicazione di una o di un’altra tra le legislazioni in conflitto alle persone, alle cose e agli atti stranieri”.

Le sue attività proseguono nel tempo fino ad arrivare alla ricordata riunione dell’Institut de droit international (1873, a Gand), in seno al quale il giurista italiano sostiene il progetto: “non è una utopia, ma potrebbe divenire col tempo e con gli sforzi comuni una benefica realtà, l’accordo di tutti i popoli in un diritto civile unico ed universale della umanità, quando il suo contenuto si restringesse alla codificazione de’ soli principi e precetti di giustizia universale, i quali scaturiscono dalla natura dell’uomo e sono indipendenti dalle convinzioni della vita nazionale di ciascun popolo”.

La codificazione offre al Mancini un importante campo di applicazione del principio di nazionalità, che egli voleva costituisse il cardine del diritto internazionale privato, attraverso un trattato che fissasse i principi della materia, permettendo così di superare i conflitti e le contraddizioni che le diverse discipline codicistiche causano. Il desiderio del Mancini rimarrà tale, ma risulta evidente come egli non faccia altro che anticipare i tempi, poiché il governo olandese raccoglierà il suo testimone, e alcuni anni dopo si terranno le Conferenze dell’Aja.

In linea generale, quanto alle fonti del suo pensiero, è lo stesso Mancini a riconoscere di aver preso le mosse dal pensiero di Giambattista Vico, quando scrive: “il Vico non aveva velato il suo proposito; lo aveva anzi a chiare note espresso in questo titolo da lui imposto alla prima edizione della grande opera: ‘Principii d’una Scienza Nuova intorno alla natura delle Nazioni, per li quali si ritrovano altri principi del diritto naturale delle genti’”. Il giurista napoletano ritrova in Vico il presupposto filosofico della nazionalità; attraverso lo storicismo vichiano, ossia la realizzazione operosa che l’uomo attua della storia e che quindi porta all’affermazione dei popoli come individualità storiche che nel corso del tempo si determinano, il Mancini trae quindi ispirazione per la sua teoria della nazionalità. Il giudizio di Gioele Solari sulla originalità del principio di nazionalità manciniano è corretto: “Molti prima e dopo il Mancini accolsero, svilupparono, definirono il concetto di nazionalità. Il merito tutto proprio del Mancini fu di averlo introdotto nelle scienze giuridiche, di aver dato ad esso forma e significato giuridico. Per opera sua il concetto di nazione cessa di essere monopolio di letterati, di storici, di filosofi, e diventa oggetto di elaborazione giuridica. E ciò significava dar vita e contenuto nuovo ai vecchi astratti schemi del diritto pubblico e privato, ravvivandoli alla luce e al calore di una vibrante realtà storica: significava aprire nuove possibilità all’attività dei giuristi, vivificare quell’indirizzo storico che per opera del Savigny era penetrato negli studi giuridici”.

Non si può analizzare la teoria della nazionalità al di fuori dell’ambiente risorgimentale, perché esso la caratterizza e la ispira. Tutti i pensatori italiani che si sono cimentati con questo tema hanno sempre avuto in mente l’esempio italiano, la ricerca dell’unità nazionale e di una giustificazione teorica nel diritto di tale volontà e possibilmente di un fondamento di diritto naturale, che affondasse così le proprie radici in qualcosa di superiore allo Stato e agli Stati oppressori.

Così avviene anche per il Mancini, che esprime con la sua teoria anche una esigenza di libertà, di liberazione dall’oppressione dell’Italia; questa dottrina è perciò espressione del Risorgimento, dal quale trae ispirazione e si alimenta, senza però che si arrivi all’eccesso di ridurre questa parte della nostra storia alla sola volontà di affermazione delle identità nazionali. Una tesi di questo genere sarebbe impropria e riduttiva della complessità e della ricchezza del periodo, il quale va oltre, verso una ricerca della libertà quale ideale a sé, antiassolutista: non si voleva solo fare l’Italia, ma anche instaurare un regime nuovo, di segno liberale. Torino era l’unica capitale della penisola a rappresentare un faro di libertà, patria di elezione per gli esuli. La città subalpina stava alla penisola italiana come Londra stava al resto d’Europa, ed era l’approdo naturale per i patrioti che fuggivano alla persecuzione dei regimi illiberali.

In una prospettiva più ampia, l’attività politica di Mancini, poi, è segnata dal tentativo di applicare nella sfera dell’impegno politico il principio di nazionalità e dalla difficoltà che spesso egli incontra nel contemperare la dottrina con le esigenze politiche contingenti in conflitto con essa. Basti pensare alla Triplice Alleanza e alla politica coloniale.

Quanto al Risorgimento, esso ebbe i ben noti grandi padri politici e militari – Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini – ma ebbe in Pasquale Stanislao Mancini il suo padre giuridico.

Francesco Ruffini, che dell’Ateneo torinese è stato una delle glorie maggiori, commentando le vicende del 1882, ha affermato che il Mancini “è degno di passare ai posteri non solamente più con la fama di oratore principe, che seppe con la parola parlata trascinare le folle, ma con l’aureola di pensatore penetrante e lungimirante, che seppe scrivere, per la storia futura di questa nostra epoca grande e tremenda e per la giustificazione piena della nostra politica, una delle pagine più decisive”.

Principali opere

Monografie

Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere, Torino, UTET, 1855-57.

Per l'abolizione della pena di morte, Torino, Eredi Botta, 1865.

Diritto internazionale: prelezioni con un saggio sul Machiavelli, Napoli, Marghieri, 1873.

Sommi lineamenti di una storia ideale della penalità, Roma, tip. "dell'Opinione", 1874.

Della vocazione del nostro secolo per la riforma e la codificazione del diritto delle genti, e per l'ordinamento di una giustizia internazionale, Roma, Civelli, 1874.

Discorsi parlamentari, Roma, Camera dei deputati, 1893–1897.

 Saggi e articoli in periodici

“Utilità di rendere obbligatorie per tutti gli Stati sotto la forma di uno o più trattati internazionali alcune regole generali del diritto internazionale per assicurare la decisione uniforme tra le differenti legislazioni civili e criminali", in Il Filangieri, 1876 e in Diritto internazionale, 1959.

 Voci enciclopediche e contributi in opere collettive

“Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti”, in F. LOPEZ DE OÑATE (a cura di), Saggi sulla nazionalità, Roma, Sestante, 1944, p. 28 et seq.

Bibliografia essenziale

A. PIERANTONI, Storia del diritto internazionale nel secolo XIX, Napoli, Marghieri, 1876.

A. PIERANTONI, Storia del diritto internazionale in Italia, Modena, Vincenzi, 1871 e Firenze, 1902.

B. DE RINALDIS, Su la vita e le opere di Pasquale Stanislao Mancini, ministro guardasigilli nel Regno d’Italia, Napoli, Tipografia dell’Unione, 1876.

M. MAURO, Biografia di P. S. Mancini, Roma, 1886.

F. RUFFINI, ‘Prefazione’, in P. S. MANCINI, Principio di nazionalità, Roma, La Voce, 1920, XXV.

E. CATELLANI, Les maîtres de l'École italienne du droit International au XIXe siècle, in Recueil des Cours de l’Académie de Droit International, Vol. 46, 1933, p. 705 et seq.

C. STORTI, Pasquale Stanislao Mancini, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), Vol. 2, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 1244 et seq.

A. DROETTO, Pasquale Stanislao Mancini e la scuola italiana del diritto internazionale del XIX secolo, Milano, Giuffrè, 1954.

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A cura del professore Edoardo Greppi